01 luglio 2008

Hate journalism, gli americani discutono di par condicio

Nell'intenso calore della metropolitana mi devo tuffare nel blando anestetico del sudoku del freepress City (e in quello di 24minuti al ritorno) per evitare che lo sguardo ricada con mestizia sulle lenzuolate di invettive riversate dalle pagine di Libero e del Giornale, apparentemente sempre più venduti qui a Milano. E' una pubblicistica urlata e deleteria, inutilmente incattivita contro un'opposizione praticamente azzerata dal voto e ormai inerme. Giornali-piede di porco schierati in una campagna elettorale permanente, che maschera "abilmente" (?) la povertà di contenuto dell'azione di governo (ridotta da anni ad aggiustare le grandi e piccole magagne della famiglia regnante) con inesauribili bordate di odio e sarcasmo.
Noi poveri residui di una politica liberal che dalle nostre parti fa a gara, quanto a scarse chance di realizzazione, con un conservatorismo di stampo europeo, siamo esposti in ogni momento a questo hate journalism stampato e televisivo, a un flusso di poche mezze verità intrecciate con inesauribili iperboli. Ieri sera un esponente leghista si arrampicava sugli specchi di Primo Piano per convincermi che la proposta di prendere le impronte digitali dei bambini Rom fosse perfettamente motivata nel quadro delle misure per la sicurezza e la tutela degli stessi bambini. Per questi geniali amministratori conta poco il fatto che il segretario generale del Consiglio d'Europa, Terry Davis, condannando senza appello le matrici culturali di certe belle pensate, avesse dichiarato quattro giorni fa che: "la proposta richiama analogie storiche così evidenti che non occorre spiegarle.” Alla stampa dell'odio, come al ministro Maroni, sfugge ogni possibile considerazione di opportunità. Anche nell'estremistica ipotesi che prendere le impronte di bambini possa davvero "servire" a qualcosa, anche ammettendo che la burocrazia italiana dell'ordine pubblico fosse effettivamente in grado di utilizzare le informazioni ricavate da questa barbarie, semplicemente certe cose, nell'Europa del dopo Auschwitz, non si devono neanche cominciare a pensare. E come protestante trovo bello che Famiglia Cristiana se la sia presa con chi, tra tanti ministri "cattolici" non abbia "alzato il dito a contrastare Maroni e l’indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini rom.»
Noi abbiamo i giornali dell'odio, ma negli Stati Uniti, dove certa pubblicistica è però ampiamente compensata da un giornalismo più consapevole, hanno la radio dell'odio. All'influente fenomeno della talk radio ultraconservatrice, quella che attira milioni e milioni di ascoltatori intorno a un feroce atteggiamento di rifiuto dei presunti "simboli" della sinistra (immigrati illegali, islamici, omosessuali e "freak"), è dedicato il libro di un regista televisivo e blogger liberal, Rory O'Connor. Shock Jocks, Hate speech and talk radio è una dettagliata denuncia dello stile verbale di dieci tra i più noti commentatori della radio dell'odio: Rush Limbaugh, Don Imus, Michael Savage e altri ancora. Pubblicato da AlterNet Books, il pamphlet può anche essere ordinato su Amazon. L'ultimo post sul blog di O'Connor ritorna su un tema di cui abbiamo già discusso qui: la possibile azione dei parlamentari democratici a favore del ripristino di una Fairness Doctrine da parte della FCC. Un parlamentare repubblicano, Mike Pence, ha presentato una proposta per una legge chiamata Broadcaster Freedom Act che metterebbe fine a ogni pretesa di controllo su contenuti politicamente estremi. Pence e altri deputati e titolari di programmi conservatori invitano il Parlamento a celebrare, con il prossimo 4 luglio, il "Radio Independence Day". Una polemica che ricorda molto la campagna nostrana contro la legge sulla par condicio. Quella propugnata dalla destra è la libertà di pensare o la libertà di odiare? Nel secondo caso, è giusto o no imporre dei limiti?

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