La politica dei tagli che ha caratterizzato queste ultime settimane di governo Berlusconi ha causato un forte malcontento tra gli editori radiotelevisivi che hanno dovuto assistere inermi all'azzeramento delle provvigioni a sostegno dell'emittenza locale (45 milioni cancellati dal decreto Milleproroghe dopo le "promesse" scritte nero su bianco nella legge sulla stabilità), cui si aggiungono i 50 milioni decurtati dai fondi per l'editoria. Ciò nonostante, non riesco a pensare che se e quando torneremo a votare, sulle scelte dell'elettorato - tra quelle che potremmo ironicamente definire le "Milleragioni" per un voto contro Kim Silvio Sung - avranno un peso anche le istanze delle radio libere.
Secondo il cronista politico della BBC, Paul Rowley, autore di uno splendido radiodocumentario trasmesso in questi giorni sulle stazioni locali di BBC Radio 2, le cose andarono diversamente in Gran Bretagna quarant'anni fa, nel giugno del 1970, quando il governo labourista di Harold Wilson chiamò il Paese alle urne con diversi mesi di anticipo e smentendo tutti i sondaggi perse di misura contro il conservatore Edward Heath. Allora si disse che gli elettori rimasero colpiti negativamente dalle cifre della bilancia dei pagamenti e che la sconfitta dell'Inghilterra alla Coppa del Mondo di Mexico '70 (proprio contro la Germania che noi sconfiggemmo per 4 a 3) aveva fatto incazzare milioni di persone.
Ma Rowley, che ha prodotto in questi anni diversi documentari sulle gloriose radio pirata offshore, si chiede in "Radio election" quale fu il peso elettorale dei giovani diciottenni che per la prima volta nella storia inglese furono chiamati alle urne. A soli tre anni di distanza dalla legge labourista che aveva decretato la fine di Radio Caroline e di tante altre paladine della musica rock.
Furono proprio i socialisti britannici a combattere il fenomeno delle radio pirata, con il suo rivoluzionario modello commerciale: audience in cambio di pubblicità. E se le grandi aziende - era questo, a grandi linee, il ragionamento - avessero preso il controllo di un bene collettivo come l'etere radiofonico? Al contrario, il manifesto elettorale di Heath prevedeva la creazione delle stazioni radiotelevisive commerciali. I conservatori mantennero la loro promessa, ma nel frattempo gli elettori dovevano aver cambiato di nuovo idea perché nel febbraio del 1974 Heath perse a sua volta le elezioni restituendo favore e scranno di primo ministro a Wilson. Pochi mesi prima, nell'ottobre del 1973, era andata on air la London Broadcasting Company.
Rowley osserva oggi che dall'analisi del voto nelle aree sudorientali del Regno Unito, dove le stazioni pirata avevano avuto molto seguito, i consensi per i conservatori furono molto numerosi. Durante la campagna elettorale, da Radio Northsea International, ancorata al largo delle acque olandesi fuori dalla giurisdizione britannica, gli appelli a favore del partito conservatore si sprecarono. Il governo di Wilson decise addirittura di disturbarne i programmi con del jamming, una manovra antidemocratica che neppure durante la Seconda guerra mondiale era mai stata messa in atto.
Sulla rivista online Radiomusications trovate un bell'articolo scritto da Robin Carmody nel 2007, The politics of offshore radio. E' un saggio conciso ma molto ben fatto sui retroscena politici della battaglia contro il monopolio della BBC. Lo scontro fu un elemento chiave in quel cocktail di crisi economica, stanchezza nei confronti del centralismo dirigista e voglia di modernità che alla fine degli anni 70 portò alla vittoria della Thatcher. Fu soprattutto un buon esempio di come, in politica, anche le buone intenzioni possono avere conseguenze spiacevoli. I labouristi erano probabilmente in buona fede quando vollero negare un pezzo di libertà a tutti pur di impedire che pochi potenti se la prendessero tutta. I conservatori erano sinceramente disposti ad accettare il rischio di qualche voce di potenziale dissenso in cambio di un fiorente mercato della pubblicità. Avevano ragione entrambi, o erano viceversa entrambi nel torto?
Quello che possiamo dire in Italia è che da solo il mercato della pubblicità non basta a sostenere le attività dell'emittenza radiotelevisiva privata, almeno non in un assetto normativo oggettivamente distorto e privo di solidi presupposti sul piano dell'analisi economica ancor prima che politica. Nelle nostre condizioni è una destra liberista solo sulla carta - ma oberata nella realtà dal macigno del conflitto di interessi berlusconiano - a guardare con maggior sospetto al pluralismo dell'etere. Per la sinistra è una ben magra consolazione l'essere stata in grado di prevedere la deriva dell'oligopolio mediatico. Mi chiedo, con una certa angoscia, se anche in questo caso l'elettorato giovanile potrà avere un ruolo nell'indirizzarci verso il cambiamento.
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