Ivan Berni, Ninì Briglia, Piero Scaramucci, Biagio Longo con intervento telefonico di Andrea Rivas. Giornalisti, alcuni dei quali divenuti molto famosi (come tantissimi che sono passati dietro a quei microfoni) che oggi non appartengono più a Radio Popolare ma che ne rappresentano l'intera storia direttoriale. Eccoli tutti schierati questo piovoso sabato mattina di novembre, sul piccolo palcoscenico dell'auditorium ricavato nel seminterrato della sede più recente della radio, una palazzina di via privata Ollearo, nel quartiere milanese che Testori ha immortalato nei grigi acquarelli della sua Gilda del Mac Mahon. Una Milano che non c'è più ma che da trenta anni Radio Popolare continua, nonostante i limiti che i suoi stessi vecchi direttori hanno evidenziato, a raccontare. A moderare la discussione, che è stata umana e politica senza cadere nel sentimentalismo un po' senile di queste occasioni, l'attuale direttore Massimo Rebotti, coadiuvato dai due curatori dei libri sul trentennale dell'emittente appena pubblicati - vedi le due schede del post precedente - da Garzanti e Kowalski. Il più ambizioso, quello di Sergio Ferrentino, è una vera e propria "garzantina" di Radiopop, una autobiografia collettiva enciclopedica strutturata per lemmi. Più impressionistico il lavoro di Danilo De Biasio per Kowalski, con un mosaico fatto di fotografie e di brevi spezzoni estratti dal poderoso archivio della stazione e riversati sul CD allegato.
De Biasio ha sottolineato sul palco e ha ribadito nella breve conversazione che dibattito chiuso ho avuto con lui, l'incredibile valore storico di quell'archivio sonoro accumulato, alla rinfusa, in mucchi di scatoloni. Qualcosa come 20, forse 30 mila audiocassette che secondo l'autore di "Ma libera veramente" richiederebbero un corposo investimento per essere tutte ascoltate e classificate, in base a criteri scientifici. E' un lavoro monumentale che De Biasio vorrebbe poter affrontare con la collaborazione di una università, perché per ripercorrere trenta anni ad altissima densità come questi non bastano due o tre studenti volonterosi: occorrono storici professionisti con una coscienza diretta o scientemente mediata dei fatti.
Li abbiamo ascoltati questa mattina, alcuni di quegli spezzoni. Il primo quello relativo a una delle primissime epocali notizie trasmesse da Radio Popolare: la morte di Mao. Al proposito Ninì Briglia, che dopo Panorama oggi dirige i periodici Mondadori, rivela come in quella circostanza avesse ricevuto, dal primo direttore Scaramucci (passato alla Rai nel 1978), "la peggiore lavata di capo professionale della mia vita". Briglia, giovane e inesperto, aveva pensato bene di dare la morte di Mao come seconda in scaletta del radiogiornale, dopo un'apertura del tutto insignificante e locale. Tante cose, tante considerazioni personali e politiche sono emerse nei 90 minuti di una discussione ad alto peso specifico, come tutta la storia di una radio nata in un momento fondamentale per la storia del nostro dopoguerra, in rappresentanza di una fettina minoritaria di una sinistra che a Milano, trenta anni fa, contava assai più di oggi, ma che ha saputo maturare in un progetto lontanissimo dall'aver voglia di smettere, un work in progress che solo Ivan Berni ha voluto in un certo senso richiamare all'ordine, invitando la Radiopop del 2006 a ritrovare, oggi, un obiettivo forte. Una radio che ha saputo far ridere di se stesso un coacervo di mentalità ideologizzate che non conoscevano l'autoironia (tra il pubblico, questa mattina, due silenziosi ma divertiti Gino e Michele). Una iniziativa viva e vitale, che come ha giustamente chiosato Briglia ha sempre portato con sè i germi di quella capacità di socializzazione, interazione, scambio oggi tanto strombazzata a proposito del cosiddetto Web 2.0, la rete delle mille comunità intrecciate.
Dei quattro illlustri presenti tutti o quasi hanno ammesso che allora, tanti anni fa, sull'idea di arrivare a celebrare un trentesimo compleanno non avrebbero scommesso una lira bucata. Forse, ha aggiunto Berni, si è capito che si stava facendo sul serio quando Sergio Ferrentino organizzò la mitica caccia al tesoro pilotata via radio del Bordetrophy (Borderline era la trasmissione satirica che fu antesignana di quel Caterpillar che Ferrentino andò a fare in Rai), trascinando mezza città in una folle ricerca di oggetti e situazioni teatrali.
Diversamente da loro gli ascoltatori ci hanno sempre creduto. Per migliaia di ex-giovani che a Milano erano nati o si erano ritrovati nei dintorni dei loro vent'anni, Radio Popolare è stata un sottofondo imprescindibile, spesso e volentieri anche quando le idee, le vocazioni politiche erano diverse. Gli spazi che forse suo malgrado, inizialmente, l'emittente ha sempre saputo dare alle voci discordi, la volontà di non farsi troppo trascinare da pregiudizi e luoghi comuni, sono stati una linfa preziosa per una città, una regione che ha subìto un traumatico stravolgimento sociale e culturale. Da sempre gli ascoltatori, forse anche quelli meno assidui, hanno fatto propria l'esortazione conclusiva di Piero Scaramucci: cercare sempre di essere una radio alternativa nel senso più profondo del termine. Una voce plurale e "altra" rispetto al velenoso piattume del conformismo, di qualunque colore esso sia. Una radiofonia fatta di cuore e di intelligenza. Due merci che si stanno facendo maledettamente rare in quest'epoca di affluente, stolida infelicità.
Grazie, trentamila volte grazie. E se potete, correte ad abbonarvi.
Li abbiamo ascoltati questa mattina, alcuni di quegli spezzoni. Il primo quello relativo a una delle primissime epocali notizie trasmesse da Radio Popolare: la morte di Mao. Al proposito Ninì Briglia, che dopo Panorama oggi dirige i periodici Mondadori, rivela come in quella circostanza avesse ricevuto, dal primo direttore Scaramucci (passato alla Rai nel 1978), "la peggiore lavata di capo professionale della mia vita". Briglia, giovane e inesperto, aveva pensato bene di dare la morte di Mao come seconda in scaletta del radiogiornale, dopo un'apertura del tutto insignificante e locale. Tante cose, tante considerazioni personali e politiche sono emerse nei 90 minuti di una discussione ad alto peso specifico, come tutta la storia di una radio nata in un momento fondamentale per la storia del nostro dopoguerra, in rappresentanza di una fettina minoritaria di una sinistra che a Milano, trenta anni fa, contava assai più di oggi, ma che ha saputo maturare in un progetto lontanissimo dall'aver voglia di smettere, un work in progress che solo Ivan Berni ha voluto in un certo senso richiamare all'ordine, invitando la Radiopop del 2006 a ritrovare, oggi, un obiettivo forte. Una radio che ha saputo far ridere di se stesso un coacervo di mentalità ideologizzate che non conoscevano l'autoironia (tra il pubblico, questa mattina, due silenziosi ma divertiti Gino e Michele). Una iniziativa viva e vitale, che come ha giustamente chiosato Briglia ha sempre portato con sè i germi di quella capacità di socializzazione, interazione, scambio oggi tanto strombazzata a proposito del cosiddetto Web 2.0, la rete delle mille comunità intrecciate.
Dei quattro illlustri presenti tutti o quasi hanno ammesso che allora, tanti anni fa, sull'idea di arrivare a celebrare un trentesimo compleanno non avrebbero scommesso una lira bucata. Forse, ha aggiunto Berni, si è capito che si stava facendo sul serio quando Sergio Ferrentino organizzò la mitica caccia al tesoro pilotata via radio del Bordetrophy (Borderline era la trasmissione satirica che fu antesignana di quel Caterpillar che Ferrentino andò a fare in Rai), trascinando mezza città in una folle ricerca di oggetti e situazioni teatrali.
Diversamente da loro gli ascoltatori ci hanno sempre creduto. Per migliaia di ex-giovani che a Milano erano nati o si erano ritrovati nei dintorni dei loro vent'anni, Radio Popolare è stata un sottofondo imprescindibile, spesso e volentieri anche quando le idee, le vocazioni politiche erano diverse. Gli spazi che forse suo malgrado, inizialmente, l'emittente ha sempre saputo dare alle voci discordi, la volontà di non farsi troppo trascinare da pregiudizi e luoghi comuni, sono stati una linfa preziosa per una città, una regione che ha subìto un traumatico stravolgimento sociale e culturale. Da sempre gli ascoltatori, forse anche quelli meno assidui, hanno fatto propria l'esortazione conclusiva di Piero Scaramucci: cercare sempre di essere una radio alternativa nel senso più profondo del termine. Una voce plurale e "altra" rispetto al velenoso piattume del conformismo, di qualunque colore esso sia. Una radiofonia fatta di cuore e di intelligenza. Due merci che si stanno facendo maledettamente rare in quest'epoca di affluente, stolida infelicità.
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