05 marzo 2013

Radio Venezia Giulia, la vera storia di una voce italiana nella Guerra Fredda


Pochi giorni fa Radio Liberty/Radio Free Europe ha festeggiato il suo 60esimo anniversario, essendo le sue trasmissioni rivolte all'URSS e al cosiddetto blocco orientale iniziate il 1 marzo 1953. Lo scopo della stazione era dichiaratamente bellicoso, anche se l'arma a disposizione non aveva a che fare con bombe e fucili ma con la propaganda: uno stile di vita "di successo" (quello americano) gettato come un guanto di sfida contro un regime che secondo i finanziatori dell'originaria Radio Liberation sapeva solo coniugare repressione spietata a una miserevole frugalità, spacciata per di più per uguaglianza. Sicuramente i due termini di questa contrapposizione non erano tanto netti, le zone grige in questo caso sono inevitabili. Ma a lungo andare, lo affermano anche gli storici, la goccia propagandistica di RFE ebbe le sue brave conseguenze sul granito di una dottrina sovietica ormai definitivamente archiviata.


Quello che molti non sanno è che prima di quel 1953 anche l'Italia ebbe la sua Radio Europa Libera. Si chiamava Radio Venezia Giulia e pur non facendo esplicito riferimento alla libertà, gli scopi e se si vuole anche il tipo di target erano praticamente gli stessi. Come racconta l'omonimo libro di Roberto Spazzali, appena pubblicato dall'editore goriziano LEG, «Radio Venezia Giulia, Informazione, propaganda e intelligence nella "guerra fredda" adriatica (1945-1954)» si trattò di una vera e propria emittente clandestina perché quando andò in onda la prima volta, da Venezia (era il 3 novembre del 1945 sulle onde medie dei 1380 kHz, in seguito affiancate da frequenze in onde corte), non solo noi non avevamo ancora un governo repubblicano, ma i programmi erano destinati a un "confine orientale" - ossia ai cittadini e gli abitanti dell'area di Trieste, Istria, Dalmazia - che non faceva formalmente parte del nostro territorio in quanto occupato e amministrato da governi militari stranieri. Era stata fino alla Prima Guerra mondiale e al fascismo un'area di forte "irredentismo" e le popolazioni di lingua e cultura italiana - che pure avevano convissuto con slavi e altri popoli nei secoli della Serenissima Repubblica e dell'impero asburgico - erano al centro di un'aspra  campagna di ripulitura etnica, vendette e minacce di deportazione (esilio poi puntualmente avvenuto). La radio, secondo il CLN giuliano che fu uno dei promotori, doveva svolgere un ruolo informazione, ma anche di testimonianza, di sostegno e prossimità dell'Italia ai suoi figli "naufragati" in un territorio conteso che molti consideravano una possibile patria. Ma già che c'era doveva anche raccogliere informazioni utili alla politica estera italiana, insomma poteva fare qualche spiata. Dopo due anni di trasmissioni, RVG entra nella sfera di attività dell'agenzia giornalistica triestina Astra, di marice democristiana. Dalla parte opposta, le autorità jugoslave rispondono con emittenti ufficiali come Radio Koper. Il Governo Militare in quello stesso anno aveva impiantato Radio Pola, operativa fino al '47, quando la città fu riconsegnata alle forze titine (Radio Pola riprese a trasmettere nel 1960 in croato e in italiano nel 1968).
Né gli alleati angloamericani né tantomeno la Jugoslavia di Tito gradivano quelle trasmissioni clandestine e tutti cercavano di disturbare o localizzare il trasmettitore. Le notizie che giungevano agli studi veneziani di Radio Venezia Giulia (che dopo quattro anni di attività, nel 1949, fu trasformata nel canale Radio Venezia III della neonata RAI) provenivano, almeno in parte, da una rete di informatori armati di ricetrasmittenti Morse e di codici crittografici da "number station" spionistica. Quando RVG spense il trasmettitore nascosto negli edifici militari della Batteria Rocchetta, una delle fortificazioni austriache del Lido degli Alberoni (oggi fauna naturalistica del WWF), Trieste faceva ormai parte, dopo il Memorandum di Londra del 1947, della Zona A del "Territorio Libero di Trieste", la regione autonoma-cuscinetto posta tra il confine dell'Italia e della Jugoslavia (a sua volta ripartita, nella penisola istriana, in una striscia slovena e una un po' più ampia regione croata che insieme rappresentavano la Zona B). Nel 1954, con l'annessione della Zona A all'Italia e della Zona B alla Jugoslavia, il TLT cessò di esistere anche se per la definitiva ratifica giuridica dello scioglimento si dovettero attendere gli accordi di Osimo del 1975. E ancora alle recentissime elezioni politiche di febbraio scorso, un movimento indipendentista triestino invitava i propri simpatizzanti a rifiutare il voto sulla base di una interpretazione per cui essendo il TLT rimasto sempre privo del governatore super partes prescritto dal testo approvato nel 1947 dall'ONU, quel testo era stato disatteso e quindi né le annessioni delle Zone A e B di sessanta anni prima, né le votazioni organizzate oggi in nome dello Stato italiano, potevano dirsi valide.
Parte della cornice intorno a questi eventi viene descritta da un libro che è molto complesso e accurato, come richiesto da uno scenario geopolitico intricato come non mai. Spazzali attinge per la prima volta in modo esaustivo ad archivi inediti che gli hanno permesso di arrivare alle minute dei notiziari, curati da una redazione che aveva al centro un personaggio letterario importante come lo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini. Non manca, al centro del volume, un corredo fotografico che comprende anche un foglio con i caratteristici gruppi di cinque simboli alfanumerici di un messaggio crittografico trasmesso dai "corrispondenti" di RVG. Il libro è del resto opera di uno studioso molto preparato sulla storia dei confini orientali. Con Raoul Pupo, docente di storia a Trieste,  Spazzali si è occupato di un tema drammatico e controverso come quello delle persecuzioni subite dalla popolazione italiana in Venezia Giulia e in Dalmazia a partire dal 1943, quando l'armistizio italiano firmato con gli Alleati porta all'occupazione tedesca della regione e allo scatenarsi di azioni condotte da partigiani e regolari jugoslavi contro quelli che venivano considerati complici del nazionalismo fascista. Nel 1945 sarà l'armata jugoslava a prendere il posto dei tedeschi e le truppe di Tito andranno anche a occupare Trieste, per una quarantina di giorni nel maggio di quell'anno. Fu un periodo tremendo per gli italiani, fino all'accordo di Belgrado che a giugno del '45 segnò l'avvicendamento nel governo di Trieste tra jugoslavi e angloamericani.  La questione più tragica e spinosa fu il tema della foibe, le cavità naturali in cui furono gettati i corpi degli uccisi e forse di molte persone ancora vive. Innestato sul successivo dramma dell'esodo dai luoghi dell'italianità dalmata, l'argomento foibe - analizzato in dettaglio dagli studiosi, inclusi alcuni che sono stati tacciati di negazionismo e "riduzionismo" solo per aver voluto prendere in esame documenti e testimonianze in chiave neutrale, o comunque non anti-slava - è stato pesantemente sfruttato in anni recenti dal nostalgico ritorno nazionalista di una parte della nostra destra. 
Le vicende di Radio Venezia Giulia avvengono insomma in un contesto di conflitto e fanatismo al quale hanno contribuito italiani, tedeschi e slavi, in uno scontro assurdo che ha lasciato dietro di una scia di violenze, lutti e decine e decine di migliaia di profughi che hanno dovuto rinunciare a radici secolari. Dietro le attività giornalistiche e propagandistiche della stazione radio voluta da un governo interinale, da una diplomazia ancora senza un vero Stato da rappresentare, c'è una storia che per drammaticità non ha nulla da invidiare a quella svoltasi su scala molto più vasta Oltre Cortina, la Guerra Fredda combattuta anche sulle onde di Radio Free Europe. Oggi ci appare come una vicenda marginale ma lo è solo in un senso geografico, perché a cavallo di una linea di confine. In realtà credo che questa storia aiuti a spiegare diversi aspetti del nostro presente, della nostra incapacità di trovare una soluzione a divisioni assurde, o di affrontare con matura consapevolezza il fenomeno contemporaneo delle migrazioni. Roberto Spazzali è autore di una cronaca preziosa e sostiene - secondo me con ragione - di aver fatto una scoperta non irrilevante. Proprio oggi, 4 marzo, il TGR del Friuli Venezia Giulia ha trasmesso un servizio sulla nostra emittente clandestina orientale, lo potete rivedere qui nell'archivio della testata giornalistica. Nel filmato (che inizia al minuto 10:05) Spazzali sottolinea come dalla lettura dei testi dei notiziari messi in onda nei primi quattro anni delle operazioni, emerge l'intenzione di esortare gli ascoltatori a non farsi prendere dal panico, a non abbandonare le loro case, a resistere ai tentativi di cancellare la loro cultura radicata nel territorio. Chi può dire come sarebbero andate le cose se quegli inviti fossero risultati più convincenti, se allora slavi e italiani avessero imparato a dialogare? Molti anni dopo, la nascita (1990) di una organizzazione come il partito croato della Dieta Democratica Istriana, dimostrò che nonostante la guerra di dissoluzione dell'esperimento federalista di Tito, un po' di voglia di perseguire l'obiettivo di fruttuosa convivenza multi-etnica, al di là di divisioni, fanatismo e propaganda è rimasta. 

2 commenti:

Marcolinia ha detto...

Molto interessante. Un po' ingenuo, mi sembra, il richiamo alla convivenza col senno di poi. La verità é che gli episodi di pulizia etnica e la prospettiva di vivere in un regime comunista indussero tantissimi italiani all'esodo e esaminando la storia con i documenti dell'epoca ( come é sempre giusto fare) non é possibile dargli torto. Vieppiú alla luce delle vicende storiche piú recenti che hanno visto le Repubbliche ex Jugoslave avvicinarsi ed integrarsi all'Europa comunitaria e non viceversa. Semmai é proprio la coscienza di tanti lutti e tanto odio a convincerci che la convivenza in un Europa unita sia l'unica via. Ed é in questo che la vicenda della Venezia Giulia non é per niente marginale
Andrea Marcolini

Andrea Lawendel ha detto...

Il richiamo era volutamente utopistico, sono ben conscio degli eventi successivi e immagino che il caso dell'Istria multietnica non avrebbe fornito all'inizio degli anni 90 un esempio di coesione più forte di una Sarajevo multireligiosa oltre che multietnica. Resta il fatto che pensare all'eventualità di un esodo meno imponente è un esercizio lecito, ancorché svolto in un certo senso sulle spalle di tanti drammi famigliari. Anche perché gli appelli a non fuggire evidentemente ci furono (dobbiamo pensare che RVG nasce prima delle sconfitte comuniste delle prime elezioni repubblicane e che la radio si rivolgeva anche a chi era stato vittima del fascismo negli precedenti). I discreti risultati della Dieta istriana stanno a testimoniare che nonostante le guerre i semi di una pacifica convivenza risiedono dormienti almeno in un numero ristretto di cuori e credo che sia doveroso cercare di propagarli nella misura del possibile. Non meno doveroso del cercare, con la verità documentale, di spegnere le incendiare forzature di una storia brandita come un'arma dai fanatismi. L'Italia tra l'altro ebbe le sue colpe nella gestione del problema profughi (così come il fascismo gestiva con la tipica arroganza delle dittature la politica della colonizzazione forzata), quindi una riflessione generale su quanto accaduto non può che essere salutare.