Ho già avuto modo di parlare di Lost City Radio/Radio Ciudad Perdida, un romanzo pubblicato qualche anno fa dall'autore peruano-americano Daniel Alarcón. Ma ho appena letto una sua intervista concessa a María Eugenia García, de La Nacion di Buenos Aires in occasione della prima uscita argentina di questo lavoro e volevo condividerla con voi. Radio Ciudad Perdida è una storia ambientata in una imprecisata città sudamericana dichiaratamente ispirata alle esperienze vissute dal giovane narratore, nato a Lima ma cresciuto da emigrante negli Stati Uniti, nell'Alabama. Il titolo del racconto è legato al ricordo di un programma dedicato alla ricerca delle persone scomparse, un Chi l'ha visto? radiofonico peruano, che Alarcón ascoltava nel corso del suo soggiorno nella città natale. Lo spunto è servito a raccontare di una grande metropoli che affronta uno sconvolgente fenomeno di migrazione interna, dell'afflusso di migliaia di ex contadini in cerca di nuove opportunità dopo la fuga da una periferia in declino.
Alla giornalista porteña lo scrittore spiega il suo particolarissimo modus operandi. Alarcón produce la prima versione dei suoi romanzi nella lingua con cui si sente maggiormente a suo agio, l'inglese, e successivamente procede a una riscrittura in spagnolo, un lavoro svolto con l'aiuto del padre, della redattrice della sua casa editrice e di un traduttore. Da tutto questo emerge un libro "doppio" più che un vero e proprio abbinamento originale-traduzione. Nell'intervista Daniel dice di Radio Ciudad Perdida che la versione spagnola ormai gli piace anche più di quella scritta nell'inglese che gli ha permesso in prima stesura, un maggior controllo, la possibilità di attraversare con qualche felice espressione i passaggi più ostici della narrazione. «Difficilmente se il libro non ti piace in spagnolo ti piacerà in inglese,» afferma. Trovate una breve ma intensa intervista radiofonica ad Alarcón da parte di NPR a proposito suo libro War by Candlelight/Guerra a la luz de las velas. Uno dei critici citati dal programma parla di hyphen literature, la letteratura giocata nel corto - ma indefinito - spazio tra "peruano" e "americano".
Tutto quello che ho letto nell'intervista, anche nella descrizione della sua vita californiana (Alarcón vive a Oakland, il contraltare di San Francisco sull'altra riva della Baia), testimonia di questa nuova generazione di autori figli della globalizzazione. Individui che mettono radici dappertutto, che si trovano giovanissimi a manipolare materiali linguistici diversi. Osservatori di una realtà ormai "delocalizzata", dove spesso l'unica cosa che viene chiamata "luogo" è Internet. L'autore di Radio Ciudad racconta per esempio di abitare in una zona di Oakland popolata da immigrati messicani, dalle stesse bande di spacciatori che vivono anche sul confine a San Diego. La frontiera messicana, dice, è a venti ore di macchina da qui, ma abitare a Oakland è un po' come stare a Tijuana, avverti la stessa sensazione di rischio. Quando in Messico la guerra tra bande imperversa, lo stesso accade nella ricca e tranquilla città del "centro norte" californiano.
Mi ha fatto molto riflettere su certi nazionalismi nostrani, sull'insensata pretesa di poter disporre di un territorio, della sua lingua, delle sua cultura, come se confini e lingue e culture fossero scolpiti nel marmo di una tavola divina; non determinati dal mutevole destino delle persone che in un dato momento si trovano ad attraversarlo. Forse il relativo benessere di questi ultimi 30 o 40 anni ci ha fatto venire strane idee sulla relativa stanzialità che ha caratterizzato tante aree importanti del mondo. E ora che il motore della migrazione ronza sempre più impetuoso e travolgente, rimescolando milioni di destini c'è chi reagisce costruendo muri.
Credo avremo molto da imparare da scrittori come Alarcón, così come abbiamo avuto molto da imparare da scrittori come Joseph Conrad, né Korzeniowski, il nobile polacco (oggi sarebbe ucraino) che imparò la sua lingua di scrittore a vent'anni compiuti, lavorando come marinaio a bordo dei mercantili inglesi e dando vita a racconti straordinari. Conrad fu un caso isolato, i libri doppi di Alarcón forse diventeranno una felice regola. Con buona pace di chi i libri non li legge neppure nell'unica lingua che conosce.
Alla giornalista porteña lo scrittore spiega il suo particolarissimo modus operandi. Alarcón produce la prima versione dei suoi romanzi nella lingua con cui si sente maggiormente a suo agio, l'inglese, e successivamente procede a una riscrittura in spagnolo, un lavoro svolto con l'aiuto del padre, della redattrice della sua casa editrice e di un traduttore. Da tutto questo emerge un libro "doppio" più che un vero e proprio abbinamento originale-traduzione. Nell'intervista Daniel dice di Radio Ciudad Perdida che la versione spagnola ormai gli piace anche più di quella scritta nell'inglese che gli ha permesso in prima stesura, un maggior controllo, la possibilità di attraversare con qualche felice espressione i passaggi più ostici della narrazione. «Difficilmente se il libro non ti piace in spagnolo ti piacerà in inglese,» afferma. Trovate una breve ma intensa intervista radiofonica ad Alarcón da parte di NPR a proposito suo libro War by Candlelight/Guerra a la luz de las velas. Uno dei critici citati dal programma parla di hyphen literature, la letteratura giocata nel corto - ma indefinito - spazio tra "peruano" e "americano".
Tutto quello che ho letto nell'intervista, anche nella descrizione della sua vita californiana (Alarcón vive a Oakland, il contraltare di San Francisco sull'altra riva della Baia), testimonia di questa nuova generazione di autori figli della globalizzazione. Individui che mettono radici dappertutto, che si trovano giovanissimi a manipolare materiali linguistici diversi. Osservatori di una realtà ormai "delocalizzata", dove spesso l'unica cosa che viene chiamata "luogo" è Internet. L'autore di Radio Ciudad racconta per esempio di abitare in una zona di Oakland popolata da immigrati messicani, dalle stesse bande di spacciatori che vivono anche sul confine a San Diego. La frontiera messicana, dice, è a venti ore di macchina da qui, ma abitare a Oakland è un po' come stare a Tijuana, avverti la stessa sensazione di rischio. Quando in Messico la guerra tra bande imperversa, lo stesso accade nella ricca e tranquilla città del "centro norte" californiano.
Mi ha fatto molto riflettere su certi nazionalismi nostrani, sull'insensata pretesa di poter disporre di un territorio, della sua lingua, delle sua cultura, come se confini e lingue e culture fossero scolpiti nel marmo di una tavola divina; non determinati dal mutevole destino delle persone che in un dato momento si trovano ad attraversarlo. Forse il relativo benessere di questi ultimi 30 o 40 anni ci ha fatto venire strane idee sulla relativa stanzialità che ha caratterizzato tante aree importanti del mondo. E ora che il motore della migrazione ronza sempre più impetuoso e travolgente, rimescolando milioni di destini c'è chi reagisce costruendo muri.
Credo avremo molto da imparare da scrittori come Alarcón, così come abbiamo avuto molto da imparare da scrittori come Joseph Conrad, né Korzeniowski, il nobile polacco (oggi sarebbe ucraino) che imparò la sua lingua di scrittore a vent'anni compiuti, lavorando come marinaio a bordo dei mercantili inglesi e dando vita a racconti straordinari. Conrad fu un caso isolato, i libri doppi di Alarcón forse diventeranno una felice regola. Con buona pace di chi i libri non li legge neppure nell'unica lingua che conosce.
Nota de tapa - Daniel Alarcón
Un narrador entre dos idiomas
El autor de Radio Ciudad Perdida nació en Lima hace 31 años. Creció en Estados Unidos y escribe en inglés libros de temática latinoamericana que él mismo traduce
Sábado 17 de enero de 2009
Por María Eugenia García
Para LA NACION - Buenos Aires, 2008
Si el límite entre una lengua y otra pudiera dibujarse, como la frontera entre dos países en los mapas escolares, Daniel Alarcón estaría parado justo sobre la línea divisoria. Es que este autor -que nació en Lima, Perú, hace 31 años, y creció en Estados Unidos- parece poseedor de una lengua doble, que le permite ondular entre el español y el inglés con similar encanto.
La novela Radio Ciudad Perdida (2008, Alfaguara) es su primer libro editado en la Argentina, a pesar de haber debutado en 2005 con el volumen de cuentos Guerra a la luz de las velas . Escrita originalmente en inglés, Radio ? fue traducida al español a través de un cuidadoso proceso de ida y vuelta, y mano en mano, entre Alarcón, su padre, la editora y el traductor Jorge Cornejo. El resultado es tal que en el libro no quedaron huellas de tamaña transposición. "En inglés siento que tengo facilidad de prosa y estilo, que puedo opacar defectos del texto con una frase bonita -dice el escritor-. Pero cuando ves en bruto la primera traducción al español, aún sin pulir, todos esos defectos quedan al desnudo. En algunos casos he tenido que arreglar ciertas cosas, y creo que incluso quedó mejor que en inglés [ríe]. Ahora, creo que si el libro no te gusta en español, tampoco te gustará en inglés."
Hay una mujer, Norma, que perdió a su marido. Y hay un niño, Víctor, que perdió a su madre. Pero la verdadera protagonista de la novela es la ciudad, sin nombre pero a todas luces latinoamericana, que abre su enorme boca de dragón para devorar a los que se le rinden sin más. "Cuando vivía en Lima, en 2001, había un programa que buscaba personas en una de las cadenas nacionales de radio. El programa me parecía increíble, sintomático de algo que sucedía en Lima y que sucede en muchas ciudades, no sólo latinoamericanas. Tiene que ver con ese proceso de migración interna dentro de un país, en ciudades que no saben acoger a los residentes -explica Alarcón-. Hay una idea que tiene que ver con el desaparecido político latinoamericano de los años 70, que tiene una representación en la novela. Pero mi propósito inicial era escribir sobre el nuevo desaparecido latinoamericano, el desaparecido económico, el migrante del interior que llega a una ciudad donde no tiene familia ni amigos y que se pierde dentro del tumulto. Uno no puede hablar del crecimiento de una ciudad como Lima y de los trastornos sociales que acarrea, sin hablar del conflicto interno y de la guerra, porque los dos procesos van de la mano. La violencia que eso representa fue ganando terreno en la novela sin que yo lo planeara."
-¿Por qué, viviendo en Estados Unidos, elige escribir sobre América latina?
-Bueno, es que finalmente escribir sobre Perú es también escribir sobre Estados Unidos. Uno de los efectos de lo que se llama la globalización es que todo se va pareciendo. Hay muchas ciudades como Lima en todos los continentes. En pocos años, el 50% de la población de California va a ser hispanohablante. Un ejemplo muy puntual: yo vivo en Oakland, un barrio latino, con muchos inmigrantes. La guerra que se está librando ahora en la frontera de México entre los diferentes grupos de narcos tiene repercusión en mi barrio, con minibatallas entre pandillas. Yo leo las noticias de México con terror, y si las cosas van muy mal allí, cuando voy del subte a mi casa camino un poco más rápido, ¿entiendes? Aunque Oakland está a más de veinte horas de la frontera con México, es una ciudad fronteriza, igual que Tijuana.
-Usted señaló que ya existe en Estados Unidos una camada de escritores hijos de inmigrantes.
-Sí, hay una generación de escritores que terminan siendo intérpretes de la realidad de otros países porque sus padres vienen de otro país, pero los educaron en Estados Unidos y escriben en inglés. Entonces terminan siendo traductores de esa otra realidad. Embajadores. Pueden ser una presencia en su país de origen, pero no necesariamente. Ahora, el problema son los escritores que no se van a leer, que no se van a traducir al inglés, a causa de que al lector gringo promedio al que le interese América latina o Perú, le será más fácil leer mi libro que que le traduzcan la novela de Santiago Roncagliolo o de Miguel Gutiérrez. No hay una diversidad de voces, es preocupante.
-¿Cómo se recibió el libro en Estados Unidos?
-Allá pasan cosas muy raras, porque si alguien es un escritor de origen exótico, a veces lo tratan de encasillar en periodismo literario, le quitan la etiqueta de artista, mientras que con un escritor que sea norteamericano nato, gringo, dicen "Ah, éste es un artista". Siendo escritor latino en Estados Unidos, te tienes que acostumbrar a esto desde un comienzo. Cuántas veces he leído, por ejemplo en reseñas de mi libro, que mi familia se fugó de la violencia política de Perú, lo cual es algo totalmente falso. Cuando mi familia se fue del Perú en 1980, no había violencia política. Sin embargo, en Estados Unidos, aunque yo nunca lo he dicho, se lo inventan, lo ponen y se repite, porque le da cierto romance a mi biografía. Pero lo que en algún lado te puede fastidiar, por otro también te puede ayudar. Te dan becas, te dan premios, porque "al exótico, el peruanito, hay que apoyarlo". He pensado muchas veces, "Oye, qué buen apellido este" [se ríe]. En definitiva, yo creo que he tenido mucha suerte. Yo escribo en inglés por circunstancias con las que yo no he tenido nada que ver. Y llamo la atención por razones que son extraliterarias: en el Perú, porque escribo en inglés; en Estados Unidos, porque soy peruano, y en América latina, porque no hablo mal el español. ¡Salgo ganando en todos lados! Debo ser el escritor más suertudo del mundo.
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