Se abitate a Milano o dintorni e vi piace il teatro, c'è ancora tutta la settimana di cartellone nella sala Oscar di via Lattanzio (la zona è quella di piazzale Lodi a pochi passi dalla famosa Cascina Cuccagna) per il Re Lear di William Shakespeare nella personale rilettura del Pacta dei Teatri di Riccardo Magherini, un attore italiano che oltre a una certa notorietà televisiva (presta voce e volto a diversi spot divertenti e compare in alcune sitcom popolari), vanta un notevole estro registico e una spiccata capacità di distillare testi e situazioni teatrali e letterarie. Riccardo recita nel "suo" Lear con la moglie Genni D'Aquino e altri tre attori di grande esperienza, Annig Raimondi, Francesco Paolo Cosenza e Antonio Rosti, cinque interpreti che a turno indossano i panni di quasi tutti i personaggi di un'opera dalla trama complicata, ma di fatto dominata dal protagonista e del suo conte di Gloucester, entrambi coinvolti in una divagazione sulle tragiche, irreversibili conseguenze di decisioni dettate più dal cedimento alle lusinghe di un amore troppo scontato per essere autentico, che dalla giustificata senilità dei due vecchi.
Vi invito caldamente a seguire il Lear pactiano non perché sia un buon conoscente, posso dire un amico di Riccardo e Genni e un sincero ammiratore del loro mestiere, ma per la travolgente, emozionante efficacia di una operazione che in teatro non è mai facile portare a termine: asciugare una scrittura tanto intricata da tutte le sue parti secondarie, riducendo diverse ore di pesante teatro classico a un corposo atto unico giocato su una sorta di impressionismo letterario. Che nulla toglie e soprattutto nulla aggiunge al testo originale. Anzi, il "corto" Lear di Magherini è sorprendentemente filologico, come se il processo di distillazione avvenuto aiutasse ad avvicinarsi alla datata retorica shakespeariana, mettendone in risalto la modernissima psicologia.
Chi conosce la storia di Re Lear - ed è probabile nella Milano che ancora ricorda quello di Strehler - non può perdere questa impressionante, densissima rilettura. Se non conoscessimo la storia, come spettatori saremmo perduti senza questo prezioso condensato, un brodo primordiale e ristretto di follia umana e teatrale. Convincenti e fedelissime l'analisi e l'interpretazione, bravi e sincronizzati i proteiformi attori, saggi, lungimiranti e generosi i folli della vicenda, stolti e gretti i "sani di mente". Commovente e sobria la ripudiata Cordelia, cantata più che interpretata da Genni e Annig in duetti di sapore greco. Realistici e barbarici i costumi tra il pre-raffaellita e i mamuthones, scene e scenografie tra Vienna ed Elsinore, corruschi effetti sonori e le luci… Le luci! Affilate e accecanti come le lame sui poveri occhi del Gloster. I cinque attori sono la tempesta profetica di un sogno sul far dell'estate. Pacta dei Teatri, l'insegna che ha ormai sostituito quella inagurata dalla compagnia di Magherini già di stanza al Teatro Arsenale, vale il "The Globe". E forse qualcosa in più.
Venerdì 25 maggio Simona Spaventa ha recensito lo spettacolo per Repubblica. Una critica molto positiva, che tuttavia muove al regista più di una riserva davanti a un finale apparso al quotidiano troppo sfilacciato. Ripensando alle sensazioni della mia intensa serata, ricordo anch'io di avere provato sul finale un vago retrogusto di appetito insoddisfatto. Retrogusto su cui ho rimuginato alquanto. Spaventa dice in sostanza che i tagli praticati a un Lear trasformato in un cechoviano atto unico tolgono all'opera profondità e spessore. E' una semplificazione che non mi trova concorde. Re Lear è la narrazione di una conseguenza, quella di una fallace decisione dettata come si è detto da lusinga, senilità, affetti mal riposti. E dovrebbe intitolarsi "King Lear and Earl of Gloster": il primo impazzito, il secondo cieco prima e accecato poi. A mio parere Magherini ha gestito il suo procedimento di decostruzione e ricostruzione con una estrema attenzione al dettaglio nelle scene iniziali, preservando quasi tutto dell'originale attraverso una dosata compressione. Poi, man mano che i due protagonisti si allontanano, defilandosi dal piano della realtà (Lear lo fa di primo acchito, da cui il fatale errore di valutazione sull'eredità da ripartire tra le figlie), alcuni particolari della storia si perdono nella nebbia delle foreste attraversate dai due vecchi dissennati e dai loro presunti insani accompagnatori. Quel mio appetito insoddisfatto e forse la conclusione cui è arrivata la critica di Repubblica sono per così dire ingenui, superficiali: da spettatori un po' pigri ci aspettavamo una "conclusione", peggio ancora una "morale" della storia, la rassicurante fuga nell'ultimo concertato del Don Giovanni ("Questo è il fin di chi fa mal") che Da Ponte e Mozart appiccicarono per mal celare la loro smaccata simpatia per il libertino appena "ingluviato" dalle fiamme di un inferno piccolo borghese ante litteram. Ma la conclusione vera del Lear - lo si capisce bene proprio grazie a Magherini e alla sua compagnia - è nella premessa: l'amore vero e profondo è infinitamente più scomodo, più impervio di quello dichiarato a parole. Non riconoscerne le asperità porta ineluttabilmente alla infelicità e alla rovina e poco conta se alcuni personaggi del Lear messo in scena all'Oscar perdono alla fine di consistenza e trama. Non è un puzzle, questo, o la meccanica regia di un giallo di Hitchcock, non c'è bisogno che i pezzi della storia vadano al loro posto se i pazzi della storia fanno le loro amare scoperte. Forse è vero che uno spettatore informato dei fatti, uno che conosca la versione canonica di Lear, può apprezzare maggiormente il lavoro di Pacta, ma nel quasi concitato inizio c'è già tutto. E come sempre in Shakespeare, può bastare per una vita. Davvero una prova superba, senza alcuna piaggeria da amico-conoscente.
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