14 maggio 2009

Babele 56, capolinea integrazione

Quando sono andato ad abitare dalle parti di Piazzale Loreto, a Milano, il muro di Berlino era ancora un confine politico e amministrativo e l'autobus 56 faceva capolinea a due passi, in Piazza Bacone. Avevo una fermata quasi sotto casa e mi capitava di prenderlo ogni tanto, un autoarticolato, lungo lungo e con un percorso che è rimasto quasi inalterato, solo un po' accorciato visto che solo il capolinea è stato spostato un po' più in là, nella piazza della famosa e macabra impiccagione del '45.
Il 56, anzi "la" 56 perché a Milano gli autobus si chiamano ancora come quando a indicarne il tracciato erano le lettere dell'alfabeto (la 56 poteva essere la F, o la H, faccio fatica a ricordare), arrivava in fondo a via Padova, zona periferica e popolare del nord est della città, dove i quartieri portano ancora il nome dei comuni inurbati da Mussolini, come la Crescenzago dove il bus fa capolinea. Una via per niente turistica che diventò di colpo famosa per il rogo di un cinema a luci rosse provocato da quei pazzi di Ludwig (era il 1983, forse il cinema era nella parallela viale Monza). Verso quegli anni cantavo in un coro che si riuniva per le prove in una traversa di quella specie di tunnel all'aria aperta di via Padova, nella legatoria del padre di uno dei soprani. Sulla 56 mi capitava di salirci spesso, già allora era una linea da passeggeri marginali, che in centro, si capiva benissimo, non ci arrivavano mai. Uno dei tanti pezzi della Milano grigia e invisibile, dimessa ma tanto più vera delle stranote vie della moda.
Mi sono ritrovato a bordo della 56 questa mattina ascoltando a Radio Popolare la voce di un giovane filosofo milanese, Giorgio Fontana, che quando io cantavo le mie parti di basso quasi in fondo a via Padova, a Cimiano, non era neppure nato. Oggi non canto più in quel coro ma il direttore, l'organista Umberto Balestrini, uno che ha lavorato a lungo nell'industria discografica, e che ha avuto un sacco di guai di salute, abita ancora da quelle parti, dove la vitalità della musica è felicemente rappresentata dalla meticcia Orchestra di via Padova.
Giorgio è autore di Babele 56, un piccolo libro che avrei voluto scrivere io e che dovrebbe essere letto nelle scuole di questa Milano sull'orlo dell'apartheid. Di questa Italia che si vanta, chiede e ottiene voti elettorali in cambio di quei "respingimenti" che somigliano tanto a certi carri bestiame piombati. Un libro vissuto e scritto dall'autore sull'autobus 56, che in questi anni ha percorso un lungo cammino verso una città sempre molto popolare ma profondamente diversa, che ha sostituito il dialetto dai tratti già monzesi con l'arabo e le lingue asiatiche e africane di un quartiere fortemente multietnico. E' una delle poche zone milanesi che possono sostenere il confronto con certi quartieri parigini, stranamente anch'essi collocati verso la banlieu nord, nord-est, abitati soprattutto da migranti. Via Padova è la nostra piccola Belleville, una Goutte d'Or collocata non a est di Montmartre - come lo straordinario villaggio urbano del XVIII arrondissement battezzato così, mi aveva spiegato il marito di una cara amica trapiantata a Parigi, perché nel medioevo le vigne producevano un bianco dorato apprezzato a corte - ma quasi ai confini della Sesto San Giovanni un tempo operaia. Dalla Milano benpensante e xenofoba via Padova è considerata una suburra fuori controllo, preda della criminalità di colore. Un ghetto bisognoso di pulizia e polizia. La realtà è che la stretta e diritta arteria qualche problema di mala l'ha sempre avuto, anche con episodi molto tragici e oggi una buona parte delle attività commerciali è gestita dai rappresentati delle varie comunità straniere. Straniere, non necessariamente estranee. O nemiche.
Babele 56, leggo sulla scheda pubblicata dall'editore Terredimezzo, raccoglie le vite di «Karkadan, rapper tunisino. Kamal, giocatore di cricket dello Sri Lanka, portinaio per campare. José e Milca, editori peruviani a piazzale Loreto... Un viaggio in otto fermate affidato alla penna di un giovane scrittore di grande talento: i capitoli del libro sono intervallati da un racconto ambientato sull’autobus numero 56, che percorre avanti e indietro via Padova, una della vie più multietniche di Milano, "una via che racconta una storia a ogni passo, e ogni storia è fatta di un colore diverso".» Sul sito di Giorgio Fontana, che ha vissuto diversi periodi fuori dall'Italia, a Dublino, in Canada, ho trovato molti scritti stimolanti sulla problematica dell'esilio, dello sradicamento, delle lingue apprese quasi per caso e di lingue disimparate per volontà. Lingue che hanno il coraggio di cambiare e arricchirsi e lingue, come la nostra, che si impoveriscono per l'irrefrenabile paura di quelli che vorremmo rispedire "a casa loro". Potete trovare alcune sue cose anche su Eleanore Rigby, il più importante pamphlet letterario del mondo, che Giorgio "co-dirige", mentre qui c'è una bella intervista di Repubblica Tv, che lo ha intervistato a bordo del suo autobus.
Grazie a Giorgio e a Radio Popolare che ne ha parlato, la 56 che ho preso questa mattina mi ha condotto infine a Marco Mancassola un altro scrittore da tenere d'occhio.

7 commenti:

Roberto ha detto...

E' bello che tu stia a Milano e che tu sconfini ogni tanto dall'impostazione "radiofonica" del tuo blog. Riesci così a pennellare - o meglio a ri-pennellare - i ricordi miei, che milanese son stato magari un po' di sfuggita, nato sì ma col cuore forse altrove...
P.S. A furia di parlar bene (o a non parlar male) degli immigrati, si comincerà prima o poi a beccarci denunce per "apologia di reato"? :-( Con l'andazzo che sta prendendo questa povera italiuccia, non mi meraviglierei...

Andrea Lawendel ha detto...

Caro Roberto, non saprei, il Parlamento che abbiamo eletto ci sorprende spiacevolmente ogni giorno di più e appena sei convinto che il fondo sia stato toccato, lo vedi prendere in mano la vanga per scavare più in basso. Di questo passo sì, è possibile che si arrivi, gradualmente, all'inferno di uno stato di polizia autoimposto, la protettiva-mortale camera iperbarica evocata da mariu. Se poi la mettiamo insieme con le notizie che arrivano dalla Francia, dove le tasche delle case discografiche sono diventate più sacre e inviolabili della libertà di espressione...
Non so ste sto parlando "bene" o "non male" degli immigrati. So che parlo di me stesso, nato a Milano ma assolutamente immigrato e grato dell'accoglienza, cresciuto nella bambagia ma incapace di stabilire relazioni con gli altri ovattati. L'unica cosa che so è che è una cosa schifosa mettersi a spaventare gli altri, certamente più inermi di te, solo perché sei attanagliato dalla paura e dalla diffidenza. Ricchi come siamo dovremmo essere molto meno nevrastenici, mi pare.
Quanto agli sconfinamenti... Nei momenti in cui, ancora ragazzino, mi pungeva il morbo di una radio fatta di segnali lontani e quasi impercettibili, quasi non c'era altro modo per entrare in contatto con l'altro senza troppe mediazioni. La tv satellitare per piccole parabole muoveva i primi passi, Internet non ne parliamo, l'immigrazione era fatta di pochi intellettuali e dirigenti d'azienda e dei rimasugli di immigrazione al tempo stesso forzosa e casuale (penso per esempio a quei polacchi che dopo Montecassino scelsero di restare qua, alle mogli che qualche italiano già allora andava a cercare oltre il Tarvisio) da guerra fredda. Il turismo all'estero costava un occhio, non trovavo uno in grado di pronunciare il mio cognome manco a pagarlo, gli stranieri si potevano incontrare alla Fiera campionaria ed era come andare allo zoo su marte. Io in casa sentivo parlare un'altra lingua (e che lingua, vi assicuro), la radio non fu una grossa sorpresa: sapevo che ci fosse qualcos'altro, là fuori. Fu però una grossa sorpresa apprendere che la distanza non è un concetto assoluto, che puoi essere lontano mille chilometri dal vicino di casa, se lo vuoi. Ma se lo vuoi puoi sentirti intimo, complice con chi ti parla dall'altro capo del mondo.
Quando oggi mi siedo sulla 56, sul metrò o su qualunque altro mezzo pubblico milanese (ho sentito lamentare in questi giorni il fatto che i passeggeri dell'ATM siano in maggioranza immigrati ed è la solita crudele stupidaggine nei confronti di chi può permettersi a mala pena il biglietto del tram: chi può a Milano viaggia in SUV), so di trovarmi accanto a molte persone disperate. E so che le persone disperate ricorrono a volte agli espedienti, come farei io, come farebbe chiunque. Le storie di Babele 56 le ascolto da sempre, farlo è talmente naturale che mi sembra inconcepibile questa totale incapacità di ascoltare la voce dell'altro, di uscire dalla prigione della diffidenza. Una città che insulta il vigile urbano per la multa in caso di parcheggio (del SUV) in terza fila, ma che si inventa - e pretende di far rispettare - assurdi regolamenti per penalizzare i poveri bottegai del kebab, colpevoli di nutrirti con tre o quattro euro. E' una realtà miserevole e, contrariamente alla radio, non è nemmeno dotata di interruttore.

Anonimo ha detto...

Seguo con interesse il suo blog, fatto di articoli e notizie molto interessanti. In questo caso però mi permetto di fare un appunto. Io credo che è fondamentale scindere la questione immigrazione su due aspetti. Un conto infatti è dire che eticamente e moralmente è infiusto trattare male o ghettizzare altri esseri umani, infatti questo tipo di pensiero è alquanto lapalissiano, benchè molti razzisti lo mettano in dubbio. Altra cosa è però la vita quotidiana della gente a contatto con situazioni di degrado e criminalità, spesso portate dall'immigrazione clandestina o regolare, con scarse tendenze all'integrazione. Bisogna pur ammettere che in Italia, da 15 anni a questa parte, si è fatto poco o nulla per creare uno stato sociale capace di sostenere gli immigrati, integrarli. Si è fatto altrettanto poco verso le forme di devianza che, come è anche normale, caratterizzano l'immigrazione di massa. In tutti gli Stati europei si lavora su due fronti, l'inclusione rafforzando lo stato sociale, l'esclusione, impedendo (anche con la forza in casi estremi) l'ingresso di persone poco raccomandabili o semplicemente non in regola. Io mi domando perchè questo in Francia, Spagna, Germania è possibile farlo, mentre da noi si perde tempo a parlare di ovvietà (gli immigrati sono esseri umani - vedi la Sinistra) oppure ad utilizzare la forza come puro strumento di propaganda elettorale (vedi la Destra in questi giorni). Forse perchè qui da noi le regole non le abbiamo mai potute sopportare neanche noi, figuriamoci se possiamo pretendere che lo facciano gli immigrati o addirittura iporle loro. Passate le elezioni europee gli sbarchi continueranno come prima e nulla sostanzialmente cambierà.
Saluti
Davide

Andrea Lawendel ha detto...

Gentile Davide, il suo non è appunto ma una annotazione preziosa, che riflette precisamente, esprimendola con invidiabile compiutezza, molte delle cose di cui sono intimamente convinto. E che potrà facilmente ritrovare in quanto ho pubblicato in passato su un argomento che, avrà compreso, mi sta molto a cuore. La prima colpa della nostra collettività e degli amministratori che la rappresentano, è quella di non aver neanche tentato di imbastire una politica di integrazione degna di questo nome. In una società moderna e in una contemporaneità connotata, in questo e altri ambiti, dal concetto di dislocamento, è una colpa grave. Per la società italiana un preoccupante segno di degrado morale e sprezzante trascuratezza nei confronti delle sue generazioni passate e delle loro sofferenze in circostanze assai simili a quelle vissute oggi da tanti migranti.
Rimediare a queste manchevolezze non sarà facile, anche perché nessuno, a destra come a sinistra, sembra essere minimamente conscio della necessità di porre rimedio. Alla luce, anzi nella fredda oscurità di questo vuoto, appare ancora più agghiacciante - specie per chi come me porta dentro di sé determinati retaggi - la volontà di far leva sugli istinti peggiori degli individui solo per rafforzare un potere esercitato con una arroganza pari solo alla diffusa incapacità dimostrata proprio in veste di amministratori.
Intere porzioni del nostro territorio sono quotidianamente in contatto con forme di criminalità di agghiacciante violenza, con un colossale tributo di sangue e degrado economico e ambientale versato da un'intera nazione. Lo sono da ben prima che l'immigrazione "clandestina" diventasse un problema di queste dimensioni e senza che le amministrazioni locali e centrali abbiano mosso un dito (se non per sfruttare a proprio vantaggio anche questo fenomeno) per cercare di innescare una qualsiasi forma di reazione immunitaria. Siamo invece bravissimi nel coltivare l'indignazione, la paura, la diffidenza - reazioni naturali e comprensibili, ma non sempre giustificabili - nei confronti di persone che nella maggior parte si sforzano, come tutti noi, di vivere in modo onesto. Il problema dell'integrazione, come osserva giustamente Davide, è multiforme e non ci si dovrebbe fermare alle emotività di segno opposto. Ma nella situazione fallimentare che ciascuno di noi ha contribuito a determinare io, in mancanza di meglio, cerco se non altro di esprimere la mia solidarietà.

iKlee ha detto...

non so bene per quale motivo ma il tuo post mi ha fatto tornare in mente il bar del giambellino e giorgio gaber. forse per associazione d'idee di una milano fatta di persone enon di spot.
un saluto.

Andrea Lawendel ha detto...

La Milano del Cerutti precede di poco quella che ricordo da bambino (fu pubblicata comunque quando ero già nato). Era anche la Milano che aveva rimosso da poco i cartelli "non vogliamo meridionali" e forse, chissà, qualcuno di quei cartelli c'era ancora. Quella diffidenza, quel "razzismo" nasceva da uno spirito diverso? Non saprei dirlo, se non altro dimostra che prendersela con chi viene da lontano è un ripiego facile facile: la prima scorciatoia da imboccare se vuoi autoassolverti da qualcosa o se i tuoi problemi ti sembrano, appunto, venire da lontano (quando nove volte su dieci sono dentro di te). In quella Milano poteva anche essere una conseguenza poco ragionata della leggendaria ruvidezza di una città che alla fin fine non ha mai respinto chi era disposto a sgobbare. La Milano di oggi vive in questo senso la contraddizione di chi vede il lavoro altrui - spesso in situazioni che i "nativi" non si sognerebbero di accettare - come una forma di concorrenza ed è un profondo mutamento rispetto a un passato che non era certo di diffuso benessere.
Forse su Gaber ti era sfuggito questo post di qualche mese fa?

Roberto ha detto...

Ecco, a questo proprio ieri pensavo "La Milano di oggi vive in questo senso la contraddizione di chi vede il lavoro altrui - spesso in situazioni che i "nativi" non si sognerebbero di accettare - come una forma di concorrenza "...
Se spariscono i "migranti" (o meglio, i "migrati", coloro che riescono a immigrare nel nostro Paese), chi va a raccogliere i pomodori? A spostare casse al mercato centrale? A fare i tanti lavori (e penso anche alle tantissime badanti) che a noi italiani pesano un pochettino?
Non credo che su questo fronte l'immigrato sia "la concorrenza", anzi...