Si può invertire la direzione della forza irresistibile che ci induce a dare per vere le bufale più spudorate o a dar retta ai pregiudizi più beceri? Possiamo fare qualcosa per promuovere al loro posto la tolleranza e le verità certificate dalla scienza? La risposta a questi interrogativi potrebbe essere "forse, ma la strada è in salita". Un articolo di Scientific American affronta l'argomento interrogandosi sulle misure che possono contribuire a frenare il fenomeno della disinformazione scientifica imperante oggi su Internet (un paradosso, visto che Internet è uno strumento creato dagli scienziati e saremmo ancora qui ad aspettarlo se fosse stato per la pseudoscienza). In particolare la rivista se la prende con lo scetticismo che circonda il fattore antropico nella questione del riscaldamento globale: sul ruolo diretto delle attività dell'uomo, afferma Scientific American, i ricercatori hanno raggiunto un forte consenso, ma invece di accettare il fatto la pubblica opinione tende a sottovalutare la cosa, preferendo pensare (aiutata da varie lobbies) che sui cambiamenti climatici la scienza non si sia ancora espressa in maniera definitiva. Purtroppo, prosegue l'autore dell'articolo, interveniresulle bugie ribadendo semplicemente la verità può rivelarsi addirittura controproducente. Tutti noi abbiamo una naturale tendenza a credere vero tutto quello che ci fa comodo. Il racconto della verità deve essere incisivo, stimolante, e soprattutto, conclude la testata, si deve cercare di influire sui comportamenti e gli atteggiamenti, più che sulle specifiche opinioni. L'obiettivo dev'essere quello di creare una mentalità più aperta e più critica rispetto ai fatti che ci circondano (molto spesso le teorie cospirazioniste sono inutilmente complicate e la verità riuscirebbe a emergere da una riflessione pacata che però pochi sono disposti a intraprendere).
Guarda caso, uno degli esempi citati Scientific American è uno studio del 2009 svolto su un programma radiofonico trasmesso in Rwanda allo scopo di ricucire una struttura civile e una pubblica opinione devastate dalla guerra e dall'odio razziali. Il programma si intitola Museke Weya ("nuova alba") ed è una soap opera radiofonica trasmessa settimanalmente dal 2003. Nel suo studio Reducing intergroup prejudice and conflict using the media Elizabeth Levy Paluck dimostra che gli ascoltatori di Museke Weya seguendo le vicende raccontate dalla storia, ideata e prodotta dalla ONG "La Benevolencija", danno chiari segni di cambiamento proprio nel modo in cui riescono a porsi nei confronti degli altri. Le vicende di Nuova Alba, centrate sui temi delle differenze etniche, non insegnano una determinata "verità", ma fanno capire che è importante saper ascoltare, soprattutto ci si trova di fronte a persone traumatizzate o sofferenti. Le differenze di opinione o di usanza possono anche rimanere, ma il dolore che il conflitto può generare merita attenzione e rispetto.
Il lavoro della Levy Paluck cita tra i suoi riferimenti un libro intitolato The Psichology of Radio scritto addirittura nel 1935 (Google Books ne pubblica un ampio estratto). Potete inoltre vedere un interessante documentario trasmesso dalla tv olandese KRO proprio sul progetto Museke Weya, di cui potete ascoltare una puntata sottotitolata in inglese). Qui c'è un altro articolo su questa radio soap, mentre su Vimeo è stato pubblicato un filmato di un gruppo di atleti rwandesi che hanno creato nel 2007 una associazione battezzata con lo stesso nome della serie.
The House That Musekeweya Built from Musekeweya Video on Vimeo.
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