L'amico Massimo Lualdi, di Consultmedia, entra nel dibattito sulla radiofonia locale. E lo fa da par suo, nella duplice veste di giurista e sociologo dei mezzi di comunicazione, con una densa opera dottrinale intitolata "Il concetto giuridico di ambito locale alla luce dell'evoluzione tecnologica", che l'editore Planet mette in vendita a partire da ottobre (per le prenotazioni è possibile rivolgersi fin d'ora a info (at) planetmedia (dot) it).
Tempo fa Massimo ha avuto la bontà di inviarmi le bozze del suo lavoro, il cui obiettivo si riassume facilmente (sebbene il contenuto sia molto tecnico) con questa frase estrapolata dalla presentazione del volume apparsa oggi su Newsline:
Il punto di vista di Massimo è di natura legale, un piano di lettura che i cambiamenti tecnologici rendono davvero indefinito. Su Internet è addirittura impossibile parlare di confini geografici, a meno di non ricorrere a fittizie limitazioni implementate a livello di indirizzamento dei router (limitazioni che è facilissimo aggirare, peraltro). Per alcuni protocolli di radiofonia digitale, che necessitano di un'opera di coordinamento su scala come minimo nazionale, quello di "radio locale" è un concetto altrettanto sfuggente.
Anch'io nel mio piccolo affronto il tema della radiofonia locale in modo un po' paradossale quando parlo di ricevere a distanze di qualche migliaio di chilometri programmi radiofonici concepiti per un pubblico molto concentrato intorno all'antenna emittente! Tecnicamente parlando, un parametro di riferimento ancora valido potrebbe essere la potenza del trasmettitore. Ed è su questo parametro che legislazioni come quella britannica o americana fanno affidamento quando concepiscono modelli di licenza operativa su scala, appunto molto circoscritta, come nelle licenze LPAM/RSL rilasciate dall'Ofcom o le TIS/LPFM autorizzate dalla FCC. Al concetto di potenza e quindi copertura limitata si devono poi adattare i titolari di queste licenze, con una programmazione che viene non a caso definita più "comunitaria" che "locale". Anche qui, assistiamo ormai alla contraddizione di un Web che permette alla "comunità" di un quartiere cittadino di farsi sentire in tutto il mondo. Non dobbiamo dimenticare che la tecnologia influisce anche sul concetto di comunità, che non è più necessariamente quella che abita un'area geografica limitata e può per esempio diventare una "comunità di interessi" (chessò, tutti quelli che a Londra, ma anche nel Regno Unito o in Europa, o nella galassia amano ascoltare la musica ska).
Insomma, il concetto di localismo sopravvive - a fatica - solo in un ambito, quello della radiofonia in onde medie e FM, che tende di fatto a diventare minoritario, almeno nel raggio visuale di un regolatore che deve pensare all'evoluzione della radio in un contesto assai meno angusto. D'altra parte, la voglia di localismi, comunità ristrette e nicchie - senza mai rinunciare alla possibilità di aggregare e mettere in rete tutto - non smette di crescere tra gli ascoltatori. E', come sottolineavo prima, un paradosso che la normativa farebbe bene a non trascurare. Massimo Lualdi nelle conclusioni del suo nuovo libro afferma che il settore devrà essere indirizzato "verso una progressiva semplificazione" di una norma gestita e applicata nel corso degli anni attraverso un complesso percorso di recupero di una legalità iniziale virtualmente nulla, fatto di provvedimenti ex post che non potevano non accavallarsi e non contraddirsi a vicenda. Viceversa, ricorda Massimo, negli USA e altre nazioni si è passati da una "ferrea regolamentazione, a una progressiva e costante deregulation". A essere sacrificato e soprattutto il concetto di localismo, la cui caducità è insita nella parabola evolutiva della tecnologia.
La deregulation è sacrosanta, ma ancora una volta lasciatemi spezzare una lancia in favore di un modello come quello suggerito da Ofcom, che attraverso un semplice sistema di leve concettualmente semplici e facili da gestire (tipologie di licenza, regolamentazione delle frequenze, misurazione delle potenze trasmissive, accurata valutazione delle capacità e dei potenziali di mercato espressi dai richiedenti) ed esercitando una equa ma capillare politica di monitoraggio, controllo e sanzione, riesce a dare sufficiente spazio a emittenti a carattere nazionale, metropolitano e comunitario. Senza imporre il carico di una normativa incomprensibile, ma senza d'altra parte degenerare in un wild west di opportunità negate o accessibili solo a carissimo prezzo, che inevitabilmente si traduce in un mercato della radiofonia malsano, dove risorse e livelli di servizio non sono mai egualmente distribuiti.
Tempo fa Massimo ha avuto la bontà di inviarmi le bozze del suo lavoro, il cui obiettivo si riassume facilmente (sebbene il contenuto sia molto tecnico) con questa frase estrapolata dalla presentazione del volume apparsa oggi su Newsline:
Come ormai evidente a tutti, Internet e le trasmissioni satellitari hanno, invero, virtualizzato (anche) i confini della diffusione radiotelevisiva: ciascuno di noi, con una facilità impensabile sino a pochi anni fa, può in qualsiasi momento, e a un costo irrisorio, ricevere segnali digitali da tutto il mondo.La lettura di questa nuova pubblicazione è caldamente consigliata a chi volesse cercare di approfondire la complicata questione del contesto normativo in cui si muovono e muoveranno le stazioni radio nell'era dei media digitali e online. Una premessa a questa lettura è naturalmente l'intervista che Massimo ha concesso tempo fa a Radiopassioni, condensata in una sorta di vademecum sulle regole che gli impianti di radiofonia commerciale devono rispettare qui in Italia. Documento che trovate qui o potete prelevare dal nuovo link RP approfondimenti inserito nella ingombrante colonna di sinistra (sto pensando a un lavoro di razionalizzazione, ma richiederà tempo) del mio blog.
Ha quindi senso perseverare nei tentativi di codificazione di una nozione che si è già slegata, a livello fattuale, in maniera definitiva, da ogni briglia?
Il punto di vista di Massimo è di natura legale, un piano di lettura che i cambiamenti tecnologici rendono davvero indefinito. Su Internet è addirittura impossibile parlare di confini geografici, a meno di non ricorrere a fittizie limitazioni implementate a livello di indirizzamento dei router (limitazioni che è facilissimo aggirare, peraltro). Per alcuni protocolli di radiofonia digitale, che necessitano di un'opera di coordinamento su scala come minimo nazionale, quello di "radio locale" è un concetto altrettanto sfuggente.
Anch'io nel mio piccolo affronto il tema della radiofonia locale in modo un po' paradossale quando parlo di ricevere a distanze di qualche migliaio di chilometri programmi radiofonici concepiti per un pubblico molto concentrato intorno all'antenna emittente! Tecnicamente parlando, un parametro di riferimento ancora valido potrebbe essere la potenza del trasmettitore. Ed è su questo parametro che legislazioni come quella britannica o americana fanno affidamento quando concepiscono modelli di licenza operativa su scala, appunto molto circoscritta, come nelle licenze LPAM/RSL rilasciate dall'Ofcom o le TIS/LPFM autorizzate dalla FCC. Al concetto di potenza e quindi copertura limitata si devono poi adattare i titolari di queste licenze, con una programmazione che viene non a caso definita più "comunitaria" che "locale". Anche qui, assistiamo ormai alla contraddizione di un Web che permette alla "comunità" di un quartiere cittadino di farsi sentire in tutto il mondo. Non dobbiamo dimenticare che la tecnologia influisce anche sul concetto di comunità, che non è più necessariamente quella che abita un'area geografica limitata e può per esempio diventare una "comunità di interessi" (chessò, tutti quelli che a Londra, ma anche nel Regno Unito o in Europa, o nella galassia amano ascoltare la musica ska).
Insomma, il concetto di localismo sopravvive - a fatica - solo in un ambito, quello della radiofonia in onde medie e FM, che tende di fatto a diventare minoritario, almeno nel raggio visuale di un regolatore che deve pensare all'evoluzione della radio in un contesto assai meno angusto. D'altra parte, la voglia di localismi, comunità ristrette e nicchie - senza mai rinunciare alla possibilità di aggregare e mettere in rete tutto - non smette di crescere tra gli ascoltatori. E', come sottolineavo prima, un paradosso che la normativa farebbe bene a non trascurare. Massimo Lualdi nelle conclusioni del suo nuovo libro afferma che il settore devrà essere indirizzato "verso una progressiva semplificazione" di una norma gestita e applicata nel corso degli anni attraverso un complesso percorso di recupero di una legalità iniziale virtualmente nulla, fatto di provvedimenti ex post che non potevano non accavallarsi e non contraddirsi a vicenda. Viceversa, ricorda Massimo, negli USA e altre nazioni si è passati da una "ferrea regolamentazione, a una progressiva e costante deregulation". A essere sacrificato e soprattutto il concetto di localismo, la cui caducità è insita nella parabola evolutiva della tecnologia.
La deregulation è sacrosanta, ma ancora una volta lasciatemi spezzare una lancia in favore di un modello come quello suggerito da Ofcom, che attraverso un semplice sistema di leve concettualmente semplici e facili da gestire (tipologie di licenza, regolamentazione delle frequenze, misurazione delle potenze trasmissive, accurata valutazione delle capacità e dei potenziali di mercato espressi dai richiedenti) ed esercitando una equa ma capillare politica di monitoraggio, controllo e sanzione, riesce a dare sufficiente spazio a emittenti a carattere nazionale, metropolitano e comunitario. Senza imporre il carico di una normativa incomprensibile, ma senza d'altra parte degenerare in un wild west di opportunità negate o accessibili solo a carissimo prezzo, che inevitabilmente si traduce in un mercato della radiofonia malsano, dove risorse e livelli di servizio non sono mai egualmente distribuiti.
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