Domani, 3 maggio, anniversario della dichiarazione di Windhoek, è il World Press Freedom Day e tutto il mondo (l'Italia non sembra interessata, ma immagino che l'occasione verrà celebrata a Perugia per il Festival del giornalismo) discute dell'importanza di una stampa libera e indipendente. Io aggiungo anche una stampa possibilmente finanziata dalla collettività, attraverso un modello - quello dei servizi radiotelevisvi pubblici - che la crisi e l'ondata di conservatorismo e liberismo che ne è seguita minaccia costantemente. Noi italiani sappiamo benissimo che cosa significa vivere in una situazione di squilibrio di forze tra media commerciali e media indipendenti, anche se continuiamo a far finta che questo sia un non problema. Ma ovunque nel mondo, anche in molte nazioni cosiddette civilizzate, la vera libertà di stampa sembra essere diventato un bene superfluo, mentre nelle aree di conflitto e palese violazione delle regole democratiche i giornalisti sono addirittura vittime di violenze e uccisioni. Per Freedom House, che ha da poco rilasciato il suo report annuale, la libertà di stampa oggi è più compromessa che dieci anni fa. L'Italia, secondo questa valutazione, non raggiunge il novero delle trenta nazioni più virtuose ed è inserita nella classifica delle nazioni "parzialmente libere".
L'OSCE, che in questi giorni manda dall'Ucraini messaggi estremamente inquietanti, coglie lo spunto del Press Freedom Day per perorare la causa di una nazione, il Kosovo, che rappresenta un laboratorio vivente, un case study sui possibili percorsi di transizione verso forme di convivenza e governo davvero aperte e egualitarie. Costituito nel 1999 per iniziativa di UNMIK e OSCE (che avevano coinvolto l'EBU di Ginevra), RTK è diventato in quindici anni un organo di stampa riconosciuto per la sua imparzialità e per il pluralismo. Due canali televisivi e due radiofonici trasmettono (in FM e sui 549 delle onde medie) in albanese, bosniaco, turco e roma, in una nazione piccola e non certo benestante, uscita da un conflitto civile particolarmente acceso e violento. Nonostante i tentativi, però, l'organizzazione radiotelevisiva ufficiale del Kosovo non è ancora un vero e proprio ente pubblico. Gli accordi che avrebbero dovuto crearne lo statuto e la copertura finanziaria sono scaduti da un anno e mezzo e i fondi che oggi supportano il lavoro di circa 300 (un centinaio per la radio) tra giornalisti, tecnici e personale amministrativo dureranno solo per un altro anno. Il capo della missione OSCE in Kosovo, Jean Claude Schlumberger, ha chiesto di intensificare gli sforzi per dare a RTK un assetto definitivo e una continuità economica. L'OSCE ha coinvolto anche le stazioni radiotelevisive commerciali in un dibattito sulla libertà di stampa e sulla trasparenza amministrativa nei confronti dei giornalisti.
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