L'offerta di contenuti radiofonici originali in streaming è sempre più abbondante, grazie anche all'aumento del numero di Webradio nate con precisi obiettivi commerciali, spesso a carattere musicale ispirato a specifici generi. A queste si aggiungono le stazioni "Internet only" di tipo associativo e formativo-sperimentale, spesso più orientate alla creazione di format non necessariamente solo musicali. A questa offerta si aggiungono ovviamente i canali delle emittenti on air ripetuti anche in streaming, e quelli "extra" che le stazioni tradizionali, pubbliche o private, diffondono solo in formato digitale, Web o DAB+. Per non parlare di tutto il mondo dei contenuti originali e spesso esclusivi accessibili in modalità podcast, una piattaforma che negli USA, complice il successo di veri e propri hit come Serial (spinoff da This American Life, programma della NPR) già un anno fa spingeva un quotidiano come il San Jose Mercury News, ritenuto l'organo ufficiale della Silicon Valley, a titolare "Perché ci stiamo innamorando dell'ascolto dei podcast".
Sta diventando sempre più solido, insomma, il fenomeno della radio basata su modelli distributivi non-broadcast, capace cioè di fare a meno di antenne e frequenze. Per alcuni siamo già arrivati al punto di un potenziale sorpasso, determinato soprattutto dalla rapida diffusione delle piattaforme di "connected car", che grazie ai collegamenti 3G/4G portano a bordo dell'automobile interattività, servizi e una varietà potenzialmente infinita di contenuti in streaming. In Italia mi vengono in mente, a parte il caso pionieristico e ormai globale di Spreaker, gli esempi di giovani imprenditori radio-digitali come Fabrizio Mondo, inventore con Web Radio Comando prima e oggi con la sua nuova creatura Zeptle, di un inedito concetto di aggregatore di flussi radiofonici Web coniugato a un sistema di canalizzazione preso in prestito dall'LCN della tv digitale terrestre. Zeptle, disponibile su Web e come app, è una specie di telecomando che permette di accedere alla Webradio preferita attraverso un codice numerico. Funziona un po' come le tradizionali piattaforme di aggregazione radiofonica alla TuneIn, ma la fruizione degli stream è più immediata e il modello di business di Zeptle prevede la possibilità di vendere all'asta tra le emittenti i numeri di canale più bassi o facili da memorizzare.
Anche quando consideriamo il problema della saturazione delle frequenze combinato a una crescita effettivamente troppo lenta dell'alternativa della radio digitale, c'è da chiedersi se la radiofonia così come la conosciamo oggi sia destinata a tramontare, magari con gradualità ma in tempi sorprendentemente rapidi. Il Web si presenta oltretutto come una formidabile opportunità per i suoi bassi costi di avviamento: tutti o quasi possono fare radio con investimenti contenuti e minimi requisiti burocratici.
Per come la penso io la radio, diciamo "convenzionale", basata sul modello broadcast, resta imprescindibile come strumento per la distribuzione di contenuti audio su bacini di pubblico e territori di una certa ampiezza. La radio "on air" non richiede terminali utente complessi e non sposta il peso dei costi di produzione sulle spalle dei suoi ascoltatori, vincolandoli a sottoscrivere per il loro smartphone un supplemento di tariffa sui piani di abbonamento base. La mia sensazione è che in un orizzonte temporale di qualche decennio stiamo andando verso uno scenario radiofonico ancora molto variegato, in cui broadcast e broadband avranno entrambi un ruolo determinante. Anche se la tecnologia ci porterà probabilmente a convergere verso un mondo di radiofonia full ip, in questa fase sarebbe stupido costruire delle barriere cercando di forzare in un senso o nell'altro l'evoluzione di questo mezzo. Si deve piuttosto cercare le giuste formule di convivenza.
Queste riflessioni nascono fondamentalmente dalla lettura di alcuni articoli pubblicati in questi giorni sulla situazione americana, dove questa pluralità di scenari è già una realtà. Una notizia, riferita da Radiosurvivor e ancora prima da RAINNews, non è per niente positiva per le Webradio americane indipendenti. Il regime di tariffazione dei brani musicali diffusi in stream su Internet concordato nel 2006 con il Copyright Royalty Board è scaduto lo scorso dicembre e le nuove tariffe in vigore dal 1 gennaio non tengono conto, secondo le due testate specializzate, della speciale convenzione che il CRB aveva raggiunto nel 2009 con gli Internet broadcaster di piccole dimensioni, che finora hanno goduto di un regime speciale. Per ogni brano trasmesso, scrivono Brad Hill e Paul Riismandel, le Webradio "indie" oggi saranno costrette a pagare somme dieci, quindici volte superiori. A fronte di un aumento dei costi così ingenti, sarà veramente dura andare avanti, sia per la stazioni che si mantengono vendendo pubblicità, sia per chi ha scelto invece formule di subscription o altri sostegni da parte degli ascoltatori. Le speranze del settore di questi piccoli Webcaster sarebbero ormai riposte in SoundExchange, la società che raccoglie le royalties per conto delle case discografiche, con cui gli editori indipendenti potrebbero studiare accordi alternativi.
Se i Webcaster non legati alle grandi piattaforme streaming sono preoccupati, anche i podcaster americani non riescono a godersi pienamente il momento di grande visibilità della loro programmazione "asincrona". Il problema in questo caso non è tanto legato ai costi di trasmissione, quanto piuttosto alla sostenibilità delle revenues pubblicitarie e da una relazione tra produttori dei contenuti e sponsor improntati a modelli vecchi di un secolo. I podcast, scrive Fastcompany, hanno un grandissimo successo ma faticano a sfruttare questa popolarità perché usano la pubblicità come avrebbero fatto le soap opera degli anni Cinquanta. Il podcasting, forse il simbolo più conosciuto di una radiofonia completamente "nuova", vive insomma il paradosso di ricorrere, in un mondo di metriche e analisi demografiche avanzatissimi, all'«and now a word from our sponsor» di settanta anni fa, con gli autori dei podcast che leggono gli annunci prima di cominciare. La rivista dedicata all'innovazione nel business propone di rivoluzionare questo approccio prendendo come esempio il caso di Acast, una startup che dopo aver aperto i battenti in Svezia ha prima creato un ufficio a Londra per poi varcare l'Atlantico e concentrare la sua azione sulla patria del podcasting. «La strategia di Acast si muove su tre fronti - scrive Melissa Locker: aiutare gli ascoltatori a individuare nuovi podcast [attraverso una accurata selezione effettuata da redattori umani, NdR], abilitare i produttori nuovi entranti e quelli più consolidati a distribuire più efficacemente i loro podcast e assistere gli inserzionisti a sfruttare meglio il potenziale di un mercato in crescita facendo leva su metriche di miglior qualità su una targetizzazione più precisa.» Karl Rosander e Måns Ulvestam, i due fondatori di Acast puntano a costruire uno Spotify del podcasting, cercando soprattutto di coinvolgere, con la loro piattaforma e l'inevitabile app, i grandissimi sponsor. Negli Stati Uniti hanno già messo insieme un pool di competenze che include due esperti dal mondo della National Public Radio newyorkese e hanno stipulato accordi con portali come BuzzFeed.
Mentre Webradio e podcasting vivono una contraddittoria fase di luci e ombre, segnali incoraggianti giungono secondo Rob Pegoraro di Yahoo! Tech proprio dal mondo della cara vecchia radio FM, un settore in cui la legge voluta dalla FCC dell'era Obama, il Local Community Radio Act del 2010, ha aperto la strada a stazioni a bassissima potenza che riescono a convivere serenamente anche occupando frequenze vicine alle stazioni più grandi, titolari di licenze commerciali convenzionali. Citando come fonte lo stesso Radiosurvivor, Pegoraro loda stazioni come WERA di Arlington, Virginia, lanciata il 6 dicembre scorso da Arlington Independent Media - una organizzazione no profit che promuove la cultura e la tecnica dei media indipendenti - che con i suoi 21 watt riesce comunque a coprire parte della città di Washington D.C. Ancora Paul Riismandel su Radiosurvivor afferma che il 2015 è stata una grandissima annata per le stazioni LPFM, con oltre 520 nuove licenze. Una crescita quasi del 70% superiore rispetto agli andamenti registrati fino al 2013, la prima finestra aperta dalla FCC per la concessione di questi speciali permessi di trasmissione. «A quanto ne so non esiste un preciso censimento delle community station americane - scrive Riismandel, ma nei 25 anni che ho trascorso studiando questo settore radiofonico non ho mai registrato un anno con una analoga crescita.» I due esperti concludono che lo spirito della radio libera è ancora in ottima salute, anche negli affollati spazi dell'FM.
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