25 novembre 2013

La casa delle complessità del reale

Su DoppioZero, Tiziano Bonini ritorna sul documentario di Nicholas Philibert, La Maison de la Radio, con una recensione molto articolata che mette in evidenza le tematiche del film. Tiziano ha avuto la bontà di citare alcune delle brevi annotazioni che avevo pubblicato su Facebook la sera stessa della prima proiezione milanese.

«Credo che conserverò molto a lungo l'emozione di questa serata trascorsa alla Cineteca di Milano con "La maison de la radio" e i 45 minuti di discussione con il regista Nicolas Philibert. Il quale ha esordito confessando di aver voluto realizzare il suo documentario (l'intenzione, ha precisato, non era affatto didascalica e lo si è visto), un po' per amor di paradosso - quello di un film su un medium privo di immagini - ma soprattutto per un amore tout court: "la radio mi piace da quando ero bambino", ha aggiunto il regista che a proposito di paradossi ha girato, in passato, anche un film sul mondo della sordità. Alla fine del suo dialogo con gli spettatori, tutti molto partecipi mi è sembrato, Philibert ha ammesso che più in generale questo è un film sulla voce e sull'ascolto. Una grossa parte di un'opera che mi sarebbe piaciuta anche se non fossi animato da sfrenata passione radiofonica, è costituita dall'evidente fascino, del profondo rispetto nutrito nei confronti del lavoro dei 4.500 dipendenti di Radio France, della loro passione, coinvolgimento in un mestiere sentito autenticamente come proprio. Il racconto imbastito da Philibert (60 giorni di riprese distribuite nell'arco di 6 mesi) ci emoziona come molti altri film sul lavoro, la creazione artigianale, l'espressione della perizia, della competenza, della professionalità degli individui. La radio è il mestiere più bello del mondo ma tutti i mestieri ben raccontati esercitano una forte attrattiva. Lo spettacolo del lavoro dell'uomo vale, spesso supera persino lo stupore che possiamo provare davanti a un paesaggio naturale. Il merito di questo film è quello di riuscire a catturare, preservandole e rendendole visibili, tangibili, le voci senza corpo e senza tempo della radio.»


La Maison è la classica pellicola da cineteca, non avrà mai una circolazione estesa, Tiziano stesso ha dovuto procurarsi il DVD su Amazon francese (in Italia la copia da sala viene proiettata con sottotitoli italiani, su DVD non saprei). A parte queste note buttate a getto è difficile aggiungere qualcosa alle parole di Tiziano, se non soffermarsi un poco sul perché il recensore abbia provato un po' di noia, sottolineando tuttavia che si tratta molto probabilmente del tedio dovuto alla lunga contemplazione di meccanismi che lui, premiato autore e regista radiofonico, conosce fin troppo bene. Per un ascoltatore puro (sono giornalista, ma di radio non ne ho mai fatto direttamente, a parte le comparsate telefoniche e qualche intervento registrato) e un amante di radio come me, la visione del documentario equivale al dietro le quinte del laboratorio di Babbo Natale visto da un bambino di quattro anni. Probabilmente non mi stancherei mai. È curioso però che l'autore del documentario insiste molto nella descrizione del suo lavoro come un inno al lavoro della parola anche a quello dell'ascolto. Lo sottolinea nel corso dell'incontro con gli spettatori milanesi dopo la proiezione, incontro che ho registrato e vi sottopongo qui. Dietro ai microfoni, afferma a un certo punto Philibert, si parla molto, ovviamente, ma si ascolta tanto, nelle interviste, nelle telefonate. Chi fa radio non dovrebbe parlare senza prima aver ascoltato, come il pubblico dovrà fare in seguito, a fattori invertiti. In ogni caso leggete il pezzo di Tiziano Bonini perché è come sempre eccezionalmente denso di rimandi e affermazioni condivisibilissime (molto bello il parallelo con i makers, nel film di Philibert c'è un accenno fantastico proprio nel finale, quando si parla di quegli amabili matti biraghi dell'Atelier du Son di France Culture). Non si può fare a meno di cogliere poi la dichiarazione d'amore del regista nei confronti dell'istituzione della radiofonia pubblica. Nell'audio che ho registrato a Milano fa molto pensare la domanda di una spettatrice, chiaramente colta e ben informata (non solo perché parla in ottimo francese), ma del tutto incapace di cogliere la natura dell'emittente descritta nel film. «Ma che tipo di stazione di radio è?», chiede pensando evidentemente ai nostri network commerciali o alla magra offerta di Radio RAI. È un tema, questo, di portata monumentale, in Italia particolarmente svilito, avvilito direi, dalla retorica privatistica che la politica a destra e non solo a destra, ripete continuamente, come un disco rotto. Una istituzione come Radio France - o come Radio RAI dovrebbe poter essere - rappresenta un inestimabile patrimonio per l'intera società, un tesoro che ci nutre, ci fa crescere e dovrebbe guidarci nel nostro rapporto con una realtà meravigliosamente complessa. Alla fine, se posso aggiungere una categoria a quelle elencate da Tiziano, direi che nel documentario di Philibert la complessità della vita e dei suoi problemi sono davvero di casa, ospiti rispettati ma non temuti, da affrontare tutti insieme.



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